II primo amore è uno. Subito dopo capitano un’infinità di piccoli
incidenti, pensieri, momenti e disastri, proporzionalmente leggeri quanto la continuità del loro susseguirsi, nella misura necessaria per ricordare che, di
primo amore, ce n’è solo uno.
Poi c’è il secondo amore.
Il secondo amore è un mestiere tutto a sé. Capita distratto, in un
momento in cui sei concentrato a rimproverarti il fatto di aver riempito il
cervello di cianfrusaglie, come un carrello di sabato pomeriggio all’Ikea.
Il secondo amore non è né bello, né brutto. Non è dato sapere quanti
secondi amori ci potranno essere nella vita di ognuno di noi ma, nel bene e nel
male, ti cambiano dentro. E’ quel taglio di capelli nuovo da cucire appena
sotto la pelle, perché ti fa sentire come se ti guardassi allo specchio con
occhi di altri, senza doverne portare il peso fastidioso del non riconoscerti.
Non credevo di essere pronta per il secondo amore, non di nuovo per lo
meno.
Invece è arrivata Parigi.
E’ arrivata come una missione, più che una volontà. All’inizio credevo
fosse altra cianfrusaglia da buttare nella cesta, ma poi si è rivelata come un’amante
impaziente che ti spoglia senza scuse e senza educazione.
Sono partita, come vi dicevo, con un compito molto più solenne del
farmi un’avventura clandestina con una metropoli millenaria. Sono partita con
la volontà di ripercorrere i passi di Jim Morrison su queste vie, scelte come
residenza prima di morire nel 1971 a 27 anni.
Dannati 27 anni!
Per poco non ci venivo anch’io a 27 anni, e già mi sentivo un po’ in
diritto (o ansia!) di fare la mia ricerca letteraria-rock. Mi sono comprata la biografia
scritta da Stephen Davis, che consiglio vivamente, e ho scorso le pagine tanto
quanto sfogliavo i vicoli di questa città. E passo dopo passo è arrivata dove
voleva, in un posto che mi ero ripromessa di non farci arrivare nessuno per un po’.
Mi ha isolato dal resto del mondo e, nel silenzio, mi ha obbligato a
parlare ed ascoltarmi, in un gentile oblio in cui io davo le mie verità e lei
la sua bellezza. Un passo, una pagina, mentre associavo allo spazio circostante le
descrizioni della carta gialla del libro, le testimonianze dei clip o il sonoro
caldo e rauco di Jim Morrison. Credo si siano scelti reciprocamente, Jim e Parigi, per la loro
bontà apparente, il loro carisma dispotico e insicurezza popolare.
Ve l’ho già detto di leggere la biografia scritta da Stephen Davis?
Per favore, leggete
la biografia scritta da Stephen Davis e, se potete, visitate Parigi ascoltandovi
Celebration of the Lizard, Riders on the Storm, Love Me Two Times, When The Music’s Over, Back
Door Man, Five To One, Touch Me, Little Red Rooster, Hello, I
Love You, Moonlight Drive, L.A. Woman, Break On Through, Unknown Soldier.
Sono stata a Père-Lachaise, pensando fosse tappa dovuta.
C’ho messo mezz’ora a trovare la tomba di Jim Morrison e forse si sarà
fatto delle belle risate, come quando provocava le risse ai concerti dei Doors e
soccorreva davanti alle telecamere una groopie ferita, sghignazzando subito
dopo “sono stato credibile con quella puttana?”. Sentivo le vibrazioni quiete
di un luogo quasi al di fuori del tempo, un posto dove opere e spiriti dei
grandi artisti si incontrano per divenire quasi palpabili, senza dubbio il
contrario dell’immaterialità.
Chissà cosa direbbe Jim oggi. Chissà cosa si metterebbe a fare con la
crisi, gli esodati, lo spread e i governi tecnici. Sicuramente questo non
sarebbe stato il suo tempo. Non c’è poesia in questo tempo, e tempo per farla.
Anche se, per mio modesto parere, non ce n’è mai stato bisogno come ora.
Il mio primo amore è New York.
Lo so che stavo parlando di Jim, ma questo c’entra con Jim.
La canzone tormento che mi ascoltavo in ripetizione in quel periodo
era cantata da un bel ragazzone biondo, occhi azzurri e metrosexual q.b., che
si dimenava in un video black&white con la voce da primo della classe. Lui
era un tantino sgradevole, ma la canzone mi dava calorie.
Una volta piacevolmente scoperto che quella canzone non era sua (per
orrore di un amico a cui chiedo ufficialmente scusa, so cosa puoi aver passato dicendoti
che Will Young era l’autore), mi è stato detto anche che, a suonarla, era un
gruppo famoso alla fine degli anni ’60, i Doors. La canzone s'intitola Light my fire e credo sia la traduzione
in musica di tutto quello che c’è di necessario per sentirsi vivi per 10
minuti.
Destino?
Boh.
So che di fatto io, Jim, l’ho incontrato a Parigi. Vende libri di
musica usati sul lungo Senna, appena dopo il Louvre. Ha i capelli lunghi e la
barba bianca, fuma una sigaretta dietro l’altra e non ha voluto gli facessi
foto. Incuriosita, ignorante della lingua francese, e molto italiana nelle
domande, gli ho chiesto in inglese da quanto facesse quel mestiere e lui mi ha
risposto, in americano perfetto, “30 damn’ years!”.
Prima che me ne andassi, però, subito dopo aver pagato una stampa
ingiallita della copertina dei Doors di Strange Days, ha aggiunto, in un
francese altrettanto perfetto “La musique est la vie sans le silence”.
C'è altro di più vero?
Devo ancora stabilire se a sedurmi sia stata Parigi o James Morrison. Ma sento ancora il tepore del secondo amore che mi ha dormito accanto e, sinceramente, non voglio capirlo.
La FameChimica